La sofferenza vissuta da ragazzi e adolescenti è ancora più straziante, perché oltre il dolore è visibile una vitalità, tipica dell’età, compressa e bloccata dal male e dallo stare a letto; inoltre in tanti colpisce la serenità e l’accettazione della volontà di Dio, a volte difficile a trovarsi negli adulti.
La Chiesa, le comunità parrocchiali e civili, le Associazioni, gli stessi parenti ed amici, hanno provveduto dopo la loro immatura morte, a trasmettere in vari modi i messaggi emanati con la loro, sia pur breve vicenda terrena, ma soprattutto ad additarne gli esempi al distratto, convulso, frettoloso, mondo dei giovani d’oggi. Alcuni sono Servi di Dio, altri Venerabili o già Beati e Santi, altri ancora vengono definiti ‘Testimoni della fede del nostro tempo’; citiamo alcuni di questi ragazzi, splendore della fede cristiana, angeli di passaggio sulla terra che hanno lasciato una luminosa scia di virtù, purezza, esempio, amore: Silvio Dissegna 12 anni di Moncalieri; Aldo Blundo 15 anni di Napoli; Angela Iacobellis 13 anni di Napoli; Giuseppe Ottone 13 anni di Torre Annunziata; Maggiorino Vigolungo 14 anni di Benevello (Cuneo); Mari Carmen Gonzalez-Valerio 9 anni spagnola; beata Laura Vicuña 13 anni cilena; s. Domenico Savio 15 anni oratoriano di Torino; Aldo Marcozzi, 14 anni di Milano; Paola Adamo 15 anni di Taranto; Ninni Di Leo 16 anni di Palermo; Fernando Calò 17 anni portoghese, ecc.
A loro si aggiunge l’adolescente Domenico Zamberletti di 13 anni e nove mesi, il quale nacque e morì all’ombra del Santuario dell’Assunta al Sacro Monte di Varese. E nell’Albergo del Sacro Monte, di cui i genitori erano proprietari e gestori, nacque il 24 agosto 1936, ultimo di tre fratelli. Famiglia agiata e ricca di sentimenti umani e cristiani che seppe trasmettere ai figli, specie al più piccolo Domenico, il quale già in tenera età era pieno di bontà per i poveri, al punto di disporre che in cucina si preparasse un piatto in più per il “Cristo affamato”, infatti tutti i giorni si presentava qualche povero all’albergo, bisognoso di cibo. Pur essendo il “padroncino”, aiutava personalmente la servitù che trattava come fratelli. La preghiera lo attraeva notevolmente, al punto che un giorno una suora dovette scuoterlo dal suo raccoglimento per farlo andare via e lui: ”È già ora di andare? Non mi accorgo del tempo che passa”. Amava la musica in modo particolare e ancora piccolo aveva iniziato a suonare esercitandosi sul pianoforte dell’Albergo del Sacro Monte, improvvisando delicate melodie.
A 9 anni divenne addirittura organista ufficiale del Santuario; seguendo il consiglio del padre, prese a suonare senza spartito durante la Consacrazione, lasciando spazio al cuore di suonare ciò che sentiva. E una volta una signora, commossa dalla melodia inedita, ne chiese lo spartito e Domenico rispose: “Mah… non ce l’ho! La musica mi è sgorgata dal cuore, ma io non ricordo nemmeno una nota”; continuò a suonare liberamente melodie stupende, anche per i propri compagni e parenti.
Scelse di andare a scuola presso il Collegio Salesiano di Varese, per raggiungerlo prendeva ogni mattina la “cremagliera” del Monte e poi il tram. Intelligente, sveglio, curioso, con la guida del suo confessore, con la preghiera, la mortificazione e il compiere gioiosamente i doveri, riuscì a raggiungere mete spirituali sconosciute a molti degli allievi. Ogni mattino, prima della scuola, il “ragazzo del Sacro Monte” si recava nella cappella del collegio e qui davanti alle immagini della Madonna Ausiliatrice, di s. Giovanni Bosco e s. Domenico Savio, Domenichino, come veniva chiamato per distinguerlo dal santo, pregava e si confidava con i suoi celesti protettori.
Ma il Signore voleva da lui ancora di più; ai primi di gennaio del 1949 si presentarono i primi sintomi con una pleurite, di una grave malattia che avrebbe stroncato tutti i suoi sogni e quelli degli altri che l’amavano: la leucemia. Seguirono otto mesi d’intense sofferenze, offerte dal suo letto di dolore per il Papa, il clero, i malati, i fanciulli poveri e gli educatori; proferì varie frasi degne di un santo, anche se aveva poco più di 13 anni. “So che non guarirò, il Paradiso è assicurato”, “Non voglio essere incosciente quando muoio… è Domenico Savio che mi viene incontro”, “Mamma, quando non ci sarò più, va a trovare i bambini che soffrono negli ospedali, va a nome mio. Hanno tanto bisogno di conforto”, “Mi sarebbe piaciuto tanto aver potuto tenere Gesù nelle mie mani, ma si vede che devo essere sacerdote in Paradiso”, “Mamma ho chiesto alla Mamma Celeste di venirti a consolare”. E nell’anno in cui il suo grande amico e confidente Domenico Savio, veniva proclamato beato, Domenichino Zamberletti moriva il 29 maggio 1950, spirando con un grido gioioso: “Mamma mi viene incontro la Madonna!”. La sua tomba è nel cimitero del Sacro Monte di Varese.
DOMENICHINO ZAMBERLETTI: UN CHIERICHETTO IN PARADISO
I primi passi di Domenichino
Domenico Zamberletti vide la luce il 24 agosto 1936, all’ombra del Santuario di Santa Maria del Monte sopra Varese in un luogo splendido per bellezze naturali ed artistiche, che dall’alto domina la sconfinata pianura Padana; e nei giorni più limpidi lo sguardo può spaziare fino a Milano ed alle lontane cime dell’Appennino Ligure. Il Santuario è méta in ogni stagione di pellegrinaggi, di funzioni solenni e di escursioni per innumerevoli persone alla ricerca di tranquillità e di preghiera lungo lo splendido itinerario del S. Rosario. Si tratta di un’opera pregevole composta di quattordici cappelle con altrettante scene evangeliche corrispondenti ai misteri tradizionali, realizzata fra il 1600 e il 1700, che si snoda lungo un percorso in salita per circa 3 km. sulla dorsale della montagna, per concludersi col Santuario stesso a 800 metri.
Questa componente di bellezza e di gioia festiva si incise a fondo nell’animo di Domenichino (così veniva chiamato da tutti per l’esile corporatura e l’amabilità del carattere). Era il secondo figlio dei padroni dell’albergo più noto del luogo e fin da piccolo familiarizzò presto con tutti, quando sgattaiolava qua e là fra i clienti che affluivano all’albergo. Temperamento lieto per natura, non perse mai questa dominante del suo carattere, neppure nei momenti più duri della sua esistenza.
Era stato educato ad osservare la legge di Dio anche nelle cose più piccole, nella certezza che ogni trasgressione porta lontano da Dio e dal suo amore. Per questo era attentissimo non solo a non perdere la Messa festiva – cosa per lui assolutamente impensabile! –, ma anche a non arrivare che fosse già incominciata.
Un animo allegro e attento alle persone
La sua famiglia, profondamente cristiana, lo circondò di cure e di affetto: mamma, papà, il fratello maggiore, la sorellina, la nonna e Nene costituivano il suo mondo sereno, che sorrideva alle mille trovate di Domenichino, segno di uno spirito d’iniziativa fuori dal comune, che doveva svilupparsi ben presto - e in modo prodigioso - già nel corso della sua infanzia.
Dotato di un grande spirito di bene e di solidarietà era sempre pronto ad aiutare tutti, appena poteva, o ne intuiva il bisogno. Narra una sua domestica: «Era il padroncino, ma correva spontaneamente ad aiutarmi anche nei lavori più umili, come lo sparecchiare e portar via le bottiglie. Quando fui malata veniva a trovarmi e mi portava lui la minestra, magari rovesciandosene addosso la metà. Poi restava a farmi compagnia mentre gli altri bambini giocavano: “Ma vai a giocare” - gli dicevo. “Ho sempre tempo per giocare!” - rispondeva Domenichino. Ma doveva costargli un bel sacrificio, perché amava moltissimo giocare e divertirsi».
Fin da piccolo riusciva a dominare il facile egoismo dei fanciulli e s’imponeva la generosità. Era tutto per gli altri. Domenichino ci teneva moltissimo che le feste fossero davvero “una festa”. Preparava pacchetti e doni per tutti. A Natale faceva un bellissimo presepio ai fratellini. Trascurare le festività che la liturgia offre ai fedeli era per lui una colpa, uno sprezzare i doni che il Signore aveva preparato. Festa la musica, in cui espandeva il cuore, festa la scuola in cui nutriva l’agile intelletto.
Il talento musicale
Il mattino si svegliava cantando, annunciando così il nuovo giorno: andava matto per le fiabe, le poesie e le canzoni - che componeva lui stesso - rivelando presto un grande talento musicale. Da piccolo prendeva spesso allegramente le ragazze che lavoravano all’albergo e le faceva cantare intonando lui la melodia, poi saliva in piedi su una seggiola e davanti ai clienti dell’albergo si metteva spontaneamente a recitare le poesiole imparate all’asilo e terminava sempre dicendo tutto soddisfatto: “Ho finito! Battetemi le mani!”.
E il suo grande ingegno per la musica doveva ben presto rivelarsi... «Un giorno - narra la sua mamma - sentii giungere dal salotto di casa nostra le note del pianoforte. Un suono limpido ed elementare: una nota alla volta che scandiva una canzonetta di moda: Lili Marlene. “Chi è che suona?” - mi domandai. Entrata, vi trovo arrampicato Domenichino, impegnato a pestare il suo ditino sulla tastiera!». Dunque non solo gli piaceva cantare, ma anche suonare. E con quanto gusto alternava i suoi giochi alle sue “esercitazioni” al pianoforte!
La sua prima passione: l’organo del Santuario
Il Santuario era per lui un luogo privilegiato, che lo attirava. In particolare l’organo, del quale fin da piccolo aveva subito un fascino irresistibile! A soli 9 anni Domenichino si impadroniva dell’organo del Santuario come organista ufficiale. Il suo tocco delicato e vibrante stupiva. Il coro della cantoria si avvide ben presto di aver trovato un maestro d’eccezione. Così Domenichino giunse in poco tempo ad improvvisare brani interi di accompagnamento alla Messa.
Un giorno una signora si precipitò all’organo e reclamò quella bella musica per sé: voleva copiarla e suonarla. “La musica? - disse Domenichino trasognato - Non c’è, non esiste, io non ne ricordo più nemmeno una nota”.
E quelli che per una ragione o per l’altra cercavano l’organista non volevano credere ai propri occhi, quando si presentava quel biondino educato e modesto. Arrivava a stento ai pedali dell’organo e per suonare doveva ancora fare sforzi notevoli, e contorcersi tutto. Un giorno anzi si sentì un tonfo, con suoni scomposti nel bel mezzo di una melodia : era lui che per arrivare al pedale era scivolato dal sedile ed era piombato giù di peso ... aggrappandosi alla tastiera!
I genitori ebbero il buon senso di non farne “un bambino prodigio”, ma seguivano con interesse il suo progredire nell’arte. Il papà gli dava poi i suggerimenti migliori, in fatto di musica: «A ogni festa suonerai qualcosa di nuovo - gli diceva - ma all’Elevazione tu devi cavare dalla tua testa e dal tuo cuore la musica più bella per Gesù Eucaristia. Suona come vuoi, ma senza musica davanti: ricorda che è il momento più importante, la gente deve stare raccolta, e tu devi dare il meglio di te al Signore!». Non aveva ancora tredici anni quando compose un’intera pastorale. Poco dopo dovette essere ricoverato in clinica, per il suo male che aveva già fatto la sua inquietante comparsa: le ragazze andarono a trovarlo dicendogli: “Torna presto Domenichino, perché non riusciamo più a concludere nulla senza di te!”. Allora volle essere portato in cappella, si fece adagiare sull’armonium e data la sua estrema debolezza qualcuno schiacciò il mantice per lui. Le ragazze tornarono al Sacro Monte con la Pastorale imparata a memoria.
Domenichino chierichetto
In un paese così piccolo, appollaiato sul cocuzzolo di una montagna, i ragazzi amavano incontrarsi e far gruppo intorno al Santuario, dove convergevano anche i turisti e i pellegrini. Là dentro, oltre a partecipare alle funzioni, i ragazzi si sentivano “importanti”. Erano i chierichetti del Sacro Monte, quelli di casa... della Madonna! Siccome Domenichino nel gruppo aveva un certo spicco, fu fatto capo dei chierichetti.
C’era in quel ragazzino qualcosa di singolare, una bontà e un vigore che incutevano rispetto e soggezione: i suoi chierichetti poi, che erano sfacciatelli e sbarazzini con gli altri, a lui obbedivano a un solo suo cenno. Quando voleva qualcosa la otteneva, lo sapevano anche quelli di casa sua. E come si sentiva preso dalle sue responsabilità e con quale puntiglio voleva che si svolgessero i servizi alle funzioni! Bisognava vederlo con quale serietà precedeva il corteo e disponeva la fila dei ragazzini intorno all’altare, oppure li richiamava all’ordine con occhiate espressive. “Sono così distratti - si lamentava - non si rendono conto che a pochi passi da loro c’è Gesù. Ma come si fa a non pensarci!”. Domenico con i suoi compagni avvistavano di lontano l’arrivo delle processioni dei pellegrini e si precipitavano in sacrestia per prepararsi al servizio, con le sgargianti tuniche rosse, ben abbottonate, l’acqua santa, gli incensieri accesi...
Un giorno però - arrivando trafelati come al solito in sacrestia - la trovarono ingombra di chierichetti di un grande pellegrinaggio cittadino. “I chierichetti del Sacro Monte siamo noi, tocca a noi servire in Santuario”, protestò Domenichino. Ma quelli non se la dettero per intesi. Niente da fare… loro dovevano incassare! Allora Domenichino cambiò subito stile: fraternizzò simpaticamente con gli intrusi e tanto fece che seppe allettarli a voler visitare insieme la cella campanaria. “Guardate che cordoni grossi, vedete che grandi campane?”. E quando li vide tutti col naso all’insù, ad ammirare il congegno, veloce come uno scoiattolo sgusciò fuori, tirandosi dietro la porta e dando un giro di chiave. Quando si accorsero del tiro giocato, i prigionieri strepitarono inviperiti, ma nessuno poteva più udirli! Domenichino servì così trionfante la Messa solenne e solo alla fine corse a liberare gli intrusi, che - chiusi in gabbia per un’ora - non avevano ancora finito di schiamazzare e di dar calci alla porta! Non si sa esattamente come se la cavò Domenichino con quegli scalmanati... pare soltanto che capì d’averla fatta un po’ grossa e che l’incidente non si doveva ripetere più. Anche se i chierichetti del Sacro Monte avevano avuto un’altra prova che il loro “capo” sapeva quello che voleva!
Domenichino a scuola
Terminata la quinta elementare Domenichino si iscrisse a Varese come esterno nel collegio dei Salesiani. Con una visita nella cappellina e dicendo: “Se il Signore mi darà la grazia, vorrei diventare Sacerdote” si presentò in collegio nell’ottobre 1947. In quel primo incontro, narrava un suo superiore, si delineavano già i caratteri della sua giovinezza e le aspirazioni del suo cuore.
Nell’istituto tutti lo ammiravano e lo stimavano. Anche coloro che non gli professavano vera e propria amicizia avevano per lui un timoroso rispetto. Vedevano in lui il ragazzo modello e ne apprezzavano il valore da poter imitare: il suo bel carattere lo rendeva simpatico. La sua pietà viva e profonda non urtava coloro che si sentivano rimproverati dalla sua condotta. Sapeva presentare ogni cosa con bel garbo, avvicinarsi con un invidiabile sorriso, circondare con mille complimenti da far arrendere anche i più dissipati.
Per tutti i suoi compagni pregava, perché tutti diventassero buoni. Per questo lo si vedeva spesso, durante le ricreazioni, assentarsi dal cortile, recarsi in cappella da solo o con qualcuno dei migliori a trovare Gesù, ad esprimergli tutto quello che il suo cuore era capace di dettare. Interrogato, rispose che pregava per tutti. Da Gesù riceveva quella forza nel cuore, quella luce negli occhi, quel candore nell’anima, da colpire chi l’osservava. Più volte un signore, caduto miseramente e vinto dal vizio, e che aveva l’occasione di frequentare l’istituto, diceva: «Chissà cos’ha quel fanciullo! Quando mi trovo vicino a lui mi sento scosso. In lui c’è qualcosa che non c’è in altri. Non so esprimere quello che provo, non so definirlo, so solo che lo sento». Miglior elogio forse non si potrebbe dare, e viene proprio dalla “parte opposta”.
Coi superiori era di una delicatezza ammirabile: era tutto felice quando poteva procurar loro qualche piacere. Gioiva quando li sapeva soddisfatti della sua condotta. Cercava di evitare qualsiasi cosa che non
fosse stata secondo i loro desideri. Per essi pregava in modo del tutto particolare e spesso, di ritorno dall’istituto, ancora prima di raggiungere la casa, andava ad inginocchiarsi davanti alla sua Madonna del Monte per una fervorosa Ave Maria secondo le loro intenzioni. Nei colloqui con i superiori erano questi i motivi fondamentali: come poter piacere sempre più a Gesù, come offrirgli nella miglior maniera tutto ciò che poteva, compresa anche la sofferenza.
L’amore per l’Eucaristia
Alle funzioni liturgiche Domenichino appariva interiormente assorto. Non era una “posa” la sua: ci si avvide presto che l’Eucaristia era il centro di gravitazione della sua vita. Inutile dire con quale intensità si era preparato alla sua Prima Comunione. Ma ciò che sorprendeva maggiormente era il tempo che dedicava al ringraziamento dopo la comunione: lui restava assorto ancora a lungo, dopo gli altri, finché la suora interveniva chiedendogli: “Ma, Domenichino, non hai ancora finito?” La Comunione quotidiana era la sua grande delizia e vi rimase fedele finché poté. Dovette interromperla quando iniziò la scuola media in città e se ne lamentò: “Mi è sembrato che il Signore non mi volesse più così bene!”. Poté riprendere la comunione quotidiana soltanto quando si ammalò poco dopo, e fu portato all’ospedale. Allora diceva alla sua mamma: “Non so dire quanta gioia provo per tutta la giornata! Anche se tu mamma mi picchiassi e mi sgridassi, o se prendessi dei brutti voti a scuola, non me ne importerebbe proprio nulla. Non sento più niente all’infuori di questa gioia!”. I compagni di scuola lo vedevano spesso assentarsi dalla ricreazione per intrattenersi a lungo in cappella, in quel suo tipico atteggiamento che non andò sfuggito ai ragazzi: “Pregava con gli occhi!”, fu la loro testimonianza.
Non era una pietà sentimentale, paga di affetti, no. La spiritualità di Domenichino si incanalava, fin da bambino, nell’alveo robusto della ricerca della volontà di Dio.
Scoppia la malattia
Ai primi di gennaio del 1949 - Domenichino aveva appena compiuto dodici anni - strani e ripetuti malesseri con dolori alle ossa e febbre alta lo costrinsero più volte a lasciare la scuola per sottoporsi a esami e cure mediche, anche in ospedale. Raccontò lui stesso: «Ero in Chiesa; il Rosario era terminato e si era già alla Benedizione, quando sentii come un brivido attraversarmi le ossa; mi sentii spossato, mi si annebbiò la vista e fui costretto a sedermi. Pian piano il malessere passò e poi tranquillamente potei recarmi a casa, dove raccontai il fatto alla mamma. Ella mi provò la febbre e la trovò altissima. Volle chiamare il medico, che mi mandò per i raggi con quelle relative cure che non accennano mai a finire».
Giorni di relativa salute si alternavano a febbre alta, dolori, vomito: cominciò la ridda dei consulti, furono interpellati specialisti d’ogni genere, tentate cure sopra cure. Quel piccolo corpo si andava riducendo rapidamente a pelle e ossa. Neanche i medici riuscivano a diagnosticare esattamente la sua malattia, fu sottoposto ad ogni tipo di tortura: iniezioni a non finire, asportazione delle ghiandole, estrazione del midollo osseo, ecc… Al fine il verdetto fu uno dei più tremendi: leucemia. E si trattava di una forma molto rara, ancora inguaribile a quell’epoca. La mamma, che per otto mesi non smise di stargli vicino non reggeva più a vederlo soffrire così, ma lui la consolava: “Dopo passa mamma, non è niente, vedrai non è niente!”
Durante i lunghi mesi della malattia, con degenza all’ospedale, Domenichino vedeva spesso accumularsi sul suo comodino, accanto al suo letto, dolci di ogni genere, scatole di cioccolatini, sacchetti di caramelle… e notiamo che erano sempre di ottima qualità e in confezione di lusso. Ad ogni dono lui sorrideva e ringraziava, come se fosse stato il primo o l’unico regalo; poi prendeva tutto e lo distribuiva ai fratelli, ai parenti e agli amici, talvolta senza nemmeno assaggiare neanche uno di quei cioccolatini così invitanti.
Domenichino in Paradiso
Sul finire del mese di maggio dell’Anno Santo 1950 la malattia di Domenichino, che pure aveva lasciato talora qualche barlume di speranza, cominciò a precipitare. Si tentò ancora una trasfusione, che però non sortì buon effetto. Sopravvenne anche un po’ di affanno al respiro, cosa che non si era mai verificata fin qui: il medico confidò che non sperava più ormai. E tuttavia, pur così affannato, Domenichino godeva la compagnia di suo fratello convalescente d’appendicite, e parlavano del Giro d’Italia e si udivano le loro squillanti risate. Quanto queste risate facevano penoso contrasto con le fervorose preghiere di Domenichino nel ricevere dal Sacerdote a lui tanto caro gli ultimi Sacramenti per gli infermi!
Verso il mezzogiorno di lunedì 29 giugno, cominciò la crisi e dovettero aiutarlo a respirare con l’ossigeno. I dolori dovevano essere più che mai atroci. Sono quasi le quattro del pomeriggio e il meraviglioso ragazzo lottatore per la vita è quasi sfinito, ma sempre lucido e vigile, con lo sguardo fisso all’immagine del Sacro Cuore, presente nella stanza nel mese a Lui dedicato. Quasi improvvisamente l’affanno cessa, i dolori dileguano, subentra un diffuso benessere. Bisogna rincuorare la mamma, dirle qualche parolina tenera: «Oh, mamma – dice Domenichino – come sto bene adesso. Stai qui vicina; vado in Paradiso». Preso tra le mani il viso della mamma e guardandola teneramente, baciandola, senza un attimo di agonia, spirò.
Era il 29 giugno 1950. Domenichino non aveva ancora compiuto quattordici anni: eppure quanta vita vissuta! |